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Intervista a Francesco Caligiuri


Abbiamo incontrato Francesco Caligiuri in occasione dell'uscita del suo ultimo libro pubblicato con Link Edizioni, abbiamo così potuto rivolgergli alcune domande.


D - Tutti gli artisti con cui si parla affermano due concetti, che l’ultimo lavoro creativo è sempre il migliore, oppure che sarà sicuramente il prossimo a essere il migliore, cosa ne pensa uno scrittore navigato come lei?


R - Chiariamo una cosa. Io non so se sono uno scrittore. Forse lo sono, forse no. Una cosa so, che scrivo tanto e scrivo per farmi coraggio. Detto questo, rispondo. Ho cominciato tardi a scrivere pertanto questi miei sette romanzi li considero come fossero una sola opera. Forse “Bambole Stregate” è quella che più m’è congeniale per il semplice fatto che a raccontare i fatti sono in tanti: un coro di narratori. Penso proprio che sia il più maturo o il più strampalato (a secondo di come si vede la cosa) dei miei romanzi.


D - Questo libro, come gli altri precedenti, sono ambientati nella sua città, anche se non la cita direttamente, e anche i personaggi sono ispirati ad alcuni suoi concittadini. Il suo background culturale e sociale l’ha influenzato molto?


R - Non so esprimere il mio punto di vista di qualcosa che non conosco. Certamente ha influito molto il lavoro che ho fatto per vivere. Per anni e anni (cinquanta, cosa più, cosa meno) stando alla cassa del Teatro Grandinetti, la gente mi è passata sotto gli occhi e ho approfittato per spiarla. Ho parlato con loro, a volte, questa umanità s’è pure raccontata, mi ha fatto partecipe della sua vita. Un’umanità pulcinellona e un po’ balorda che ha ispirato il mio primo piccolo libro “Nella misura in cui”. Per non dire dei sessantottini che mi hanno coinvolto nel loro progetto di rivoluzione. Sì, l’ingresso del Teatro è stato il corridoio che mi ha portato a raccontare questa mia Lamezia.


D - Protagonista è Davide Daverio, una sorta di uomo senza qualità che cerca invano di fuggire dal proprio destino, di avere un’occasione per dare un senso alla sua inquietudine, alla perenne sensazione di fallimento e per trovare un significato più grande al suo spaesamento tra i luoghi e i valori. Anche negli altri suoi romanzi traccia ritratti di perdenti. Perché ama così tanto i perdenti?


R - Il protagonista Davide Daverio è un uomo che ha dietro le spalle tre “suicidi geografici”. Nel senso che sparisce dal luogo dove gli succedono cose delle quali lui non ha colpa. E’ come se dovesse pagare un peccato originale, ovvero il matricidio. Davide ha ucciso sua madre venendo a questo mondo. E’ un uomo che vuole cominciare d’accapo, pur non essendo un codardo, uno che non ha paura d’affrontare le conseguenze, ma rifiuta di pagare per i delitti perpetrati da chi gli sta accanto.


D - Lei usa la tecnica narrativa del passaggio dalla prima alla terza persona, con la voce fuori campo che interviene, e il passaggio dalla prima persona del protagonista alla prima dei personaggi che lo affiancano e che di volta in volta entrano in scena. Sicuramente è l’influenza su di lei esercitata dal cinema, non dimentichiamo che Francesco Caligiuri è soprattutto un amante del cinema (oltretutto è stato bigliettaio per anni) ed è stato un filmmaker che ha partecipato a festival di cinema indipendente importanti. Quanto è importante questo aspetto per il Caligiuri scrittore?


R - Tra le tante cose che ho mancato e avrei voluto fare nella mia vita c’è la regia cinematografica. Ci sono andato vicino ma era tardi oramai. La notizia mi arrivò quando avevo cinquanta anni. Era tutto pronto, bisognava solo andare a Roma. Per fare il cinema, quello vero, bisogna essere un po’ zingaro. Se hai moglie e due figli non puoi, salvo che non vuoi perderli. In quanto alla mia tecnica narrativa, ho il vizio d’immaginare la vita dei miei personaggi come in un processo. I protagonisti sono imputati davanti ai giudici (lettori) che lo giudicano e, principalmente, ci sono i testimoni che lo raccontano, accusandolo e difendendolo. E’ un po’ kafkiano se mi si permette il vezzo.




D - Ha percepito l’influenza della letteratura americana, da Faulkner a McCarthy, da quest’ultimo in particolare trae l’ossessione per il mistero del male e della violenza, lo sguardo disincantato con cui racconta la realtà senza luoghi comuni e senza rinunciare all’ironia.


R - MacCarthy più che altri. Lamezia di oggi con le sue cosche feroci, non ha niente d’invidiare alla frontiera americana. Ma anche da Flaiano e da Kafka ho cercato d’imparare qualcosa. Non essendo io uno che ha fatto molta scuola, fatico tanto con la sintassi. Solo in questi giorni mi sono rifugiato nei “Promessi Sposi”. Sono ancora oggi alla ricerca dell’italiano. Per anni ho conosciuto solo il dialetto, coi suoi verbi all’infinito. Manzoni ci abbraccia tutti, anche me che ho fatto qualche grammo di scuola. L’ironia mi viene dal fatto che negli anni settanta e ottanta scrivevo una rubrica su i giornali locali. Era quello il solo modo di criticare la città e chi la governava senza correre rischi di essere menato di brutto.


D - Parlando con un altro scrittore, mi ha detto: io devo creare tutto nella mia mente, non prendo appunti, non faccio scalette, quando la storia è pronta nella mia mente mi metto davanti il computer e comincio a scrivere. Per lei? Come avviene il processo creativo?


R - E’ presto detto: Scrivo l’inizio, poi subito il finale e dopo mi metto a lavorare nel mezzo. Ognuno ha il metodo. Il mio funziona così. La storia, si può dire, nasce dal modo come poi va a finire. La mia forza, se forza ho, è non avere messaggi da mandare. E’ vero, la trilogia sulla violenza ha un finale edificante. La verità è che mi sembrava aver visto questa città troppo violenta per non dare una speranza al lettore.


D - E ora? Cosa farà? Quali sono i suoi prossimi progetti?


R - Ho nel computer un nuovo romanzo (titolo provvisorio: “Le ceneri di Franz”). E’ la giornata di un uomo che esce la mattina di casa e la sera ci ritorna. Incontra persone, parla con loro, ha dei ricordi. Cose di questo tipo. Senza fare autobiografia, se non quel poco necessario per uscire dalla pagina bianca. Comunque vadano le cose, lo scrivere – fosse anche da mediocre – guarisce da tante malattie, tra cui la solitudine. E questo non è poi tanto poco per uno come me che vive una vita precotta.

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